Con grandissima tristezza si cominciò a fortificare la città
di Treviso (scrive Bartolomeo Zuccato, nella sua "Cronica trevisana", essendone stato testimone oculare) facendovi
lavorare, di et note, huomini et done (e anche frati e
sacerdoti). "Si spianarono senza pietà i borghi di S. Zeno e
della Madonna, si bruciò quello di SS. Quaranta affinché non
potessero offrire riparo e ricetto ai nemici. Furono
abbattuti dal piccone monasteri, chiese, ospitali, palazzi,
guastati superbi giardini che deliziavano i dintorni della
città e atterrate tutte le case che si trovavano entro la
cerchia di difesa. Fu un'opera ciclopica di ingegneria
militare (Tessari) con gallerie e casematte, depositi e
feritoie per 280 pezzi di artiglieria, che potevano sparare
a fuoco incrociato. Le porte da 14 furono ridotte a tre.
Alle prime difese si provvide nel giro di tre mesi e poi in
modo più coordinato, sotto la direzione di Fra' Giocondo,
famoso per i suoi progetti di opere belliche e idrauliche.
Quindi Venezia (sensibile anche alle proteste dei trevigiani)
mandò Lauro di Ceri e, successivamente, Bartolomeo D'Alviano,
due capitani di ventura e valenti condottieri di eserciti.
Contro questo imponente sistema di difesa si infransero le
truppe della Lega di Cambrai (ottobre 1511).
Purtroppo alle distruzioni per la difesa della città si aggiunsero
nel 1510 la peste, nel 1511 (26 marzo) un rovinoso
terremoto, nel 1512 una apocalittica inondazione del Piave
che, rotto a Nervesa, si era immesso nei vari corsi d'acqua,
inondando parzialmente Treviso fino al limite dei primi
piani. Per fortuna il sistema idraulico di Fra' Giocondo
funzionò e le acque abbondanti finirono nel Sile.
Vinta la Lega di Cambrai, Treviso non ebbe più guerre ma
nemmeno una storia distinta da Venezia, di cui è destinata a
dividere vicende, civiltà e decadenza. Chi reagì a questa
situazione furono uomini d'arte e mestieri, e nobili
possidenti di terre che andarono a vivere altrove. Altri, inerti,
rimasero a "mangiarsi" le rendite e a sparire di senilità
statica e tediosa. Processo di scadimento sociale che durerà
lento e inavvertito fino a tutto il settecento.
Nei secoli XVI e XVII sorsero tuttavia le "Accademie" (i
Solleciti e i Perseveranti) ove si andava a gara a dire e a
scrivere le più sciocche e vuote cose del mondo. In quelle
Accademie (Michieli) imperversò il "marinismo" e quando
trionfarono per reazione gli ideali dell'Arcadia (dal 1690
in poi) dilagarono altri difetti e altre esagerazioni, egualmente
riprovevoli, cioè tutte quelle pastorellerie latte e miele,
a base di idilli, di egloghe e di madrigali, che furono la
naturale e feconda preparazione di cicisbei e delle dame
incipriate, dei minuetti e della società infrollita che Baretti,
Parini, Alfieri staffileranno senza misericordia e che
segnerà in maniera irreversibile la decadenza dei costumi e
la fine della Repubblica Serenissima. Naturalmente tutto ciò non impedì che a
Treviso si distinguessero studiosi e letterati che
lasciarono un segno nella storia locale, come Giovanni
Bonifaccio, Bartolomeo Burchiellati e più tardi Rambaldo
degli Azzoni Avogadro e i conti Riccati; e che fiorissero
gli artisti i cui nomi restano a brillare nella storia.
Basterà citarne alcuni: Cima da Conegliano, Giorgione di
Castelfranco, Paris Bordon di Treviso, nonché Lorenzo Lotto
e il Tiziano, che qui lasciarono opere insigni. In questi
secoli conventi, chiese (nel XVI secolo c'erano a Treviso
venti conventi e una quindicina di chiese) e palazzi
subiscono trasformazioni, adattandosi al gusto e alle
esigenze stilistiche del tempo, mentre le porte vengono
abbellite di bassorilievi e colonne.
E si arriva così al XVIII secolo. Nascono a Treviso
l'Accademia Agraria e la Biblioteca comunale. A Possagno il
1 novembre 1757 nasce Antonio Canova, insigne scultore che
avrà il coraggio di chiedere a Bonaparte la restituzione di
opere d'arte rubate nel Veneto, fra le quali i Cavalli di S.
Marco.
L'EPOCA DI NAPOLEONE
Con l'invasione napoleonica anche Treviso finisce sotto la
Francia. Bonaparte vi arriva il 2 maggio del 1797, accolto
dal nobile e fiero Anzolo Giustinian-Recanati che lo
incontra a S Agostino, nella Locanda dell'Imperatore e gli
rivolge un dignitoso saluto a nome delle genti venete,
consegnandogli alla fine la spada. Dopo un paio di settimane
i francesi entrano anche in Venezia, ponendo fine alla ormai
traballante Repubblica.
L'arrivo di Napoleone fece accendere di speranze gli animi
di chi anelava un ordine nuovo, ma in realtà seguiranno anni
turbinosi e grandi delusioni: il trattato di Campoformido,
che assegnerà il Veneto (e perciò anche Treviso) agli
Austriaci, altre guerre e il nuovo arrivo dei Francesi, con
le distruzioni, i saccheggi, le ruberie; le requisizioni
dell'una e dell'altra Armata, che passano e ripassano
rumorosamente attraverso la città, con repentini cambiamenti
degli ordinamenti dei pubblici poteri; la scomparsa dei
monasteri, la soppressione di parrocchie e la trasformazione
di chiese e conventi in magazzini militari e caserme.
Avvenimenti tutti che lasciarono segni indelebili a Treviso.
Unico bagliore di speranza fra tante calamità, il
riconoscimento legislativo dell'Ateneo Veneto, polo
culturale destinato ad arrivare fino ai nostri giorni.
Il 2 novembre del 1813, sconfitto Bonaparte, gli Austriaci
(in nome della Restaurazione) ritornarono in città per
rimanervi da assoluti padroni per 53 anni (salvo la breve
parentesi del 1848).
Da qui in avanti la storia di Treviso è legata maggiormente
alla storia d'Italia con i moti del '48, con le guerre
d'Indipendenza, fino all'annessione della città al Regno
d'Italia (15 luglio 1866).
Poi le due guerre mondiali, con i tragici bombardamenti
aerei, le immani distruzioni e le ricostruzioni edilizie, ci
hanno restituito la città di oggi, alla quale il 13 aprile
del 1948 fu assegnata la medaglia d'oro al valor militare
per il Risorgimento e la Resistenza contro le violenze
nazifasciste.
Questa è Treviso, piccola città di provincia, devota a San
Liberale, attraversata dal Sile, ridente di canali e rogge,
con meno di centomila abitanti, con le sue glorie e le sue
tradizioni; più nota per la sua cordiale ospitalità, la
buona cucina, la fragranza dei vini e il suo radicchio rosso
famoso in tutto il mondo.
La città in cui vissero Arturo Martini e Giovanni Comisso,
con la sua gente" allegra e "matarana", fedele al motto "mi
no vado a combàtar" e nella quale lo spirito amicale si
rinnova e si stempera tra le "ciacole" al mercato e quelle
in osteria.
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